Io, Montescaglioso e Parma
“Girano
tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il
lucano, più di ogni altro popolo, vive nell’ombra. Dove arriva fa il nido, non
mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure “mumciupì” con le
rivendicazioni. È di poche parole.”
Così
Leonardo Sinisgalli ingegnere e poeta di Montemurro (PZ) raccontava il suo
incontro con i lucani nel mondo lui, che per lavoro il mondo l’aveva girato, che non aveva mai dimenticato la terra natia.
È così: siamo tanti, un esercito di lucani, di prima e seconda generazione, sparsi nel
mondo. A volte ci riconosciamo senza nemmeno dover parlare, solo guardandoci
negli occhi, oppure sentendo nell’altro una sola parola che ci riporta alla
mente il suolo da cui siamo partiti.
È capitato
una volta a Roma, quando un signore di mezza età sentendoci parlare nella
lingua che fu dei nostri padri ci riconobbe come appartenenti alla sua terra e
ci raccontò della sua infanzia irsinese.
Ma basta
divagare, ora vi racconto la mia storia.
Sono figlio
di Montescaglioso città che si erge sulla collina materana con una storia
millenaria nata dai coloni greci e proseguita con i monaci benedettini e la
loro imponente abbazia che per secoli ha dominato il territorio circostante,
sono figlio di quella parte di Basilicata che si affaccia sulle Puglie e che
con esse ha un legame profondo.
La mia
storia non ha nulla a che vedere con le grandi migrazioni di fine/inizio
‘800/900, né tantomeno con il secondo flusso migratorio del dopoguerra e degli
anni ‘60/70 del secolo scorso, la mia è una piccola storia quella di un ragazzo
del XXI° secolo in cerca di futuro.
Quando
giunsi alla stazione di Parma per la prima volta, per visitare la città che di
lì a poco mi avrebbe ospitato, appena uscito della stessa per prendere l’autobus
cittadino che mi avrebbe condotto a casa sentii il clacson di un bus alle mie
spalle facendo poco caso a questo rumore. D’altronde era la prima volta che
visitavo la città e, a parte la mia fidanzata, non conoscevo nessuno.
Il clacson
insistentemente continuava a suonare ed io, di spalle, continuavo ad ignorarlo
fin quando Roberta mi indicò l’autista che sembrava cercasse proprio me; mi
voltai e riconobbi in quel ragazzo Carmine un montese amico di mio cugino che
mi fece la classica domanda di rito – ce fa do’? – “eh, so v’nut a farm nu gir”
fu la mia risposta.
Allontanandomi
di lì pensai a quanto strano sia il mondo, la prima persona incontrata in terra
Emiliana era stato un montese.
Quando il
mio trasferimento fu definitivo e quando iniziai a lavorare per una grande
azienda di supermercati mi irritavo alla domanda di molti, che era sempre la
stessa “sei venuto qui perché non avevi lavoro in Basilicata?” ed io precisavo
che no, che il lavoro ce l’avevo, che avevo deciso di trasferirmi per vedere il
mondo, per conoscere altri posti. Non ho lasciato Montescaglioso per
disperazione, lasciavo la mia amata terra per evolvere come uomo, lasciavo la
terra perché spesso non vedevo in essa la capacità di farmi sentire parte di un
sistema o di una comunità.
Le cose si
possono comprendere o guardandole dall’interno o guardandole da lontano, io
dall’interno le avevo ben osservate ora mi toccava guardarle da lontano per
capire se l’opinione era la stessa.
La
Basilicata e Montescaglioso per me sono come due genitori, ad un certo punto
della vita bisogna uccidere idealmente chi ci ha generato per poter spiccare il
volo in solitaria, questo è stato per me lasciare la regione che avevo giurato,
anni or sono, di non abbandonare mai.
Parma è
stata in grado di farsi amare immediatamente, una terra in cui raramente mi
sono sentito straniero, Parma è stata ed è la città in cui non mi sono sentito
inadeguato e dove ho potuto mettere a frutto le mie competenze spesso troppo
poco valorizzate in terra lucana.
Ho avuto la
fortuna di vedere Matera Capitale della Cultura Europea 2019 e Parma Capitale
della Cultura Italiana 2020 analizzando le enormi differenze di organizzazione
e di partecipazione territoriale, ho dovuto ammettere a me stesso che la
Basilicata ha ancora molta strada da percorrere per creare una reale rete
turistica che sponsorizzi un intero territorio con le proprie diversità e
peculiarità.
I lucani
incontrati qui sono tanti, molti montesi che spesso quando ti incrociano ti
pongono la solita domanda di rito “ce fa do’?” come se si meravigliassero che
altri possano aver lasciato il paese, come se si meravigliassero di
vederti e quasi si compiacciono quando vedono un volto amico, un volto che,
magari, al paese non hanno neanche mai salutato, ma qui ci si sente
appartenenti alla stessa comunità ed allora siamo tutti amici.
Spesso
capita che passando tra i tanti ponti che questa città ospita si possa
incontrare un compaesano, ci si ferma, si scambiano due chiacchiere, magari in
dialetto, e ci si saluta con la promessa di rivedersi chissà dove e chissà
quando.
I lucani
incontrati qui sono molti di Montescaglioso, di Grassano, di Irsina di
Sant’Arcangelo, alcuni rimpiangono la loro “casa” ed altri, come me, sanno che
la loro terra resterà dentro di loro ovunque andranno.
Come
Antonio, mio coetaneo di Grassano, che da diciotto anni vive a Parma e qui ha
creato il suo mondo. Per uno strano caso della vita ci siamo ritrovati a
lavorare nello stesso posto, cucinando insieme per i parmigiani, trovando
entrambi un pezzo di “casa” in un posto a ottocento km di distanza da dov’è la
nostra casa.
La bellezza
di incontrarsi sta nel poter parlare il proprio dialetto con la certezza di
essere compresi, sta nel prendersi un po’ in giro con i vari campanilismi tra
diversi comuni.
E quando
torniamo, quelle due o tre volte all’anno, le domande sono sempre le stesse:
“quann si
arr’vuat?” “quann t’ n’ vaj?”, perché tanto lo sanno che ce ne andiamo di
nuovo, che non restiamo, che ormai abbiamo spiccato il volo e difficilmente
torneremo al nostro nido.
Ognuno di
noi, però, sa esattamente da dove viene conservando in sé l’orgoglio di essere
figli di una terra millenaria che vide la Magna Grecia, Federico II e i
Briganti; ognuno di noi parla della sua terra, delle sue tradizioni, dei suoi
piatti, dei suoi nonni e delle usanze che ormai il tempo ha fatto dimenticare.
Tutti siamo uniti dall’amore per una terra che, seppur lontana, è nei nostri cuori.
Dice ancora Sinisgalli:
“Il lucano
non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa.
Il lucano è
perseguitato dal demone dell’insoddisfazione.”
Così siamo
noi lucani, figli di una grande terra, sparsi nel mondo a raccontare da dove
veniamo senza ben sapere dove stiamo andando.
Si sente il cuore, ma si sente forte anche la dignità del Lucano.
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